About the project
Texts of the film (ENG) Text by Sandi Hilal Oush Grab military camp was a place for me that has a lot of memories in my mind. I born in Beit Sahour and this place was the most ugly place in my mind. I was afraid all the time that I found myself thereby and when I was a child I was seeing all these blue lights coming outside from this place I was feeling controlled by the military and the soldiers that was occupying Oush Grab at that time and I was all the time preferring not to go in this area, not to be part of it and not even to see it but I knew deep in myself that I was controlled, I was controlled by these blue lights coming all over the town. I had also some memories from the first Intifada of this place. Once we were playing all… in my neighborhood all the children there and the soldiers came and picked all the boys that were playing with us and all the neighborhood and all the people were gathered and everybody was asking where, where, where are these boys and on a sudden we received this news that they were in Oush Grab and I was imagining how, how do they feel in Oush Grab, what were they doing and how do the soldiers treat them. Text by Eyal Weizman Zones of Palestine that may be liberated from direct Israeli presence provide a crucial laboratory to imagine the reuse or recycling of the architecture of Israel’s occupation at the moment this it is unplugged from the military/political power that charged it. Text by Nasser Abourahme Growing up, settlements were not something I was taught about. The awareness, the relationality, the alienation, the danger was something almost instinctively internalized, viscerally felt, automatically adapted to. Settlements were simply an ever-present, a constant looming presence in our daily and symbolic lives. I think, as a child, I had not completely thought-out their presence or their conditioning effect on all of us. Perhaps, I still haven’t. For me, they were like the dark castles of German fairytales, foreboding fortresses that devoured and disfigured the surrounding landscape, transforming even their immediate environment into something alien; but somehow near and far at the same time, distant and proximate. Places that, for a child, are almost unfathomable in their inherent threat and externality but still a part of your daily visual register or sight-scape. So, they were like black-spots on my cognitive map. And in a way that made them perversely alluring – curiosity and fear intermingled; I remember playing in the valley behind Shu’fat and running with friends to the foot of the hills that Pesgat Ze’ev sits on, staring for a split second at the foreign and brooding concrete contraptions and then darting, exhilaratingly, back. As, I grew older I think I became more aware of how the settlements ultimately configure so much of our daily turmoil. I began to come to terms with their role as diffusers of violence. The enclosures, the sieges, the bounding, the repression start to be understood as part of a process that is forging open, normal, stable spaces for settlers just down the road. In the end it becomes clear that your abnormality is precisely what allows for their normality, that the shortage of water is being pumped into their swimming pools. When, in 2004, we moved from Jerusalem to a flat in al-Bireh overlooked on by Psagot, my relationship with the settlements, suddenly, became more immediate. The view from my bedroom window became a source of anxiety, a compromising opening. For a long time the shutters in that part of the house were continuously closed. I felt like I could be watched and targeted at any given moment by a complex, restless machine constantly staring down at me. In a way this added to a kind of mystification of the settlement; it wasn’t a place I saw as particularly personalized. It was as though the structures themselves were what was active, what was alive and reified, like they were megalithic, menacing stone monsters, perfectly still for most parts of the day but capable of untold bodily damage, of enormous outbursts of violence at any given moment. Seeing the settlements up-close on a computer screen takes me as close to the innards of this machine as I’ll ever get; it’s a discordant but illuminating experience. It strikes me first as a deeply disturbing, unsettling jolt. All this violence, all this hate and pain for this banality, for a third-rate mimesis of American suburbia…for makeshift grocery stores, limp green lawns, grey homogenous housing, and the uniform, slow tempo of sleepy peripheries. For a colonial suburbia that, like its inspirational provenance, is seemingly devoid of or oblivious to any internal violence or conflict. A space that produces violence but never acknowledges it. A degenerate, ethnically-cleansed suburban idyllic, in which a contrived normality is somehow mechanized as weapon. And you realize that the continuous, seamless deployment in this war is the encroachment of the most banal, everyday spaces of suburbia. It’s a seriously dislocating and absurd realization. But then something else strikes me. From Psagot I see the burgeoning, expanding region of Ramallah, in all its chaotic and relentless built glory. Growing, expanding, getting louder despite everything. What do the settlers think, what do they fear when they see all this construction? All this life and urbanity? This dynamism? When they hear the call to prayer? Or the frequency of an active, living city? And then I start to see the colony as something a bit pathetic, something a bit moribund; self-asphyxiated and self-ghettoized; an isolated, sad, non-place. And I feel better. (ITA) Testo di Sandy Hilal La base militare di Oush Grab è un posto di cui ho molti ricordi. Sono nata a Beit Sahour e questo luogo per me era il posto più brutto in assoluto, e quindi ero spaventata all'idea di trovarmi lì. Ho anche qualche ricordo che riguarda la prima intifada in quel luogo. Una volta stavamo giocando nel mio quartiere, c'erano tutti i bambini e i soldati vennero e presero tutti i maschi che erano lì a giocare con noi e tutto il vicinato, tutte le persone si radunarono lì, tutti chiesero "Dove sono questi ragazzi?" e ricevettero la notizia che erano a Oush Grab e io mi immaginai come si dovevano sentire a Oush Grab, che cosa stavano facendo come i soldati li stavano trattando. Ed effettivamente la prima volta che entrai là, in quel posto, provai una serie di sentimenti contraddittori, diversi l'uno dall'altro, da una parte avevo paura, devo ammetterlo, ma ero felice c'era anche un senso di vittoria, ma sentivo anche un senso di vuoto in me, ma il sentimento che dominava tutti gli altri era la speranza. La speranza ... potevo girarmi attorno, a 360 gradi, e guardare e girare lo sguardo e anche gridare senza che nessuno mi sentisse. E per la prima volta potevo vedere Betlemme bella come è. Era la prima volta che potevo farlo da così lontano e vedere come loro guardavano noi. Ma lì invece che controllare, avevo davanti un bellissimo panorama, su Betlemme, sulla mia città, sulla città in cui ho trascorso la mia infanzia. Testo di Eyal Weiman Le zone della Palestina, una volta liberate della presenza diretta di Israele, ci metteranno a disposizione un importantissimo laboratorio per immaginare il riuso o il riciclo delle architetture dell'occupazione israeliana, nel momento in cui questa architettura verrà dissociata dalla relazione militare e di potere che fino ad ora l'ha caratterizzata. La questione del futuro dell'archeologia dell'occupazione si sposta tra anarchia e governo. Posto sulla collina di Jabel Tawil circa 900 metri sopra il livello del mare, l'insediamento domina la visuale dell'intera area palestinese. Fino all'occupazione, le colline di Gerusalemme e Ramallah erano abitate da famiglie provenienti dal Golfo, in particolare da famiglie provenienti dal Kuwait Gli insediamenti sono suburbani quando questi, messi in relazione con la geografia israeliana nei territori occupati, sono chiusi e pensati come comunità dormitorio, alimentate da un crescente intreccio di strade ed altre infrastrutture, ma possono essere concepiti anche come potenziali insediamenti urbani quando sono messi in relazione con le città Palestinesi vicino alle quali sono costruiti. Gli insediamenti sono organizzati come dispositivi ottici su scala suburbana. Il disegno delle loro strade, con anelli concentrici attorno al colmo della collina, il posizionamento di ogni casa, lo spazio tra le case e l'organizzazione di finestre e camere seguono i principi di un design che cerca di massimizzare il potere di una visione che ha in mente scopi nazionalistici, sia ideologici che strategici. Il panorama pastorale visibile dalle finestre delle case rinforza un senso di appartenenza nazionale quando legge le tracce della vita quotidiana dei palestinesi - oliveti, terrazzamenti, bestiame - L'effetto visibile degli insediamenti sui palestinesi è quello di generare una costante sensazione di essere osservati. Dalle città palestinesi è difficile riuscire a non vedere un insediamento, e molto spesso uno vede l'altro. La superficie dei sobborghi è contraddistinta dai suoi diversi usi. È segnata in modo estensivo dalle tracce di uno stile di vita piccolo borghese che la mantiene così come è: un eccesso di strade e parcheggi, giardini privati, recinti, passeggiate e piante tropicali. I primi dieci cm della superficie del terreno incarnano la maggior parte dei suoi aspetti logistici Il livello molecolare dell'occupazione è quello della piccola casa unifamiliare con un piccolo appezzamento di terreno. Investigare i modi per trasformare questa struttura ripetitiva Ma in che modo è possibile abitare la casa di qualcuno che ti è nemico? Abitare una terra vuol sempre dire farlo in relazione o con i nemici del presente o con un'antica civiltà immaginaria o reale. Questa è una condizione che trasforma l'azione dell'abitare in complessi atti di coabitazione o transabitazione. Testo di Nasser Abourahme Quando cresci, gli insediamenti non sono una cosa che ti viene insegnata. La percezione, il relazionarsi, l'alienazione, il pericolo sono qualcosa che interiorizzi quasi istintivamente. Qualcosa a cui ti adatti veramente in modo automatico. Gli insediamenti sono semplicemente una presenza costante. Un presenza che appare costantemente nella tua vita di tutti giorni e in quella simbolica. Quando sono cresciuto credo di aver iniziato a diventare più cosciente di come gli insediamenti fossero sostanzialmente la vera causa della nostra agitazione. Avevo ormai già accettato il loro ruolo di 'diffusori di violenza', ma poi cominciai a rendermi conto che i recinti, gli assedi, i divieti e le repressioni erano allo stesso tempo parti di un processo di creazione di spazi aperti, normali e definitivi per i coloni, appena oltre la strada. Alla fine diventa chiaro che la tua anormalità è esattamente ciò che permette la loro normalità. Così come la nostra carenza d'acqua che andava a riempire le loro piscine. Quando nel 2004 ci siamo trasferiti da Gerusalemme ad un appartamento di Al Bireh, che si affacciava su Psagot, la mia relazione con gli insediamenti improvvisamente divenne più diretta. La vista dalla mia finestra divenne una fonte di ansia, un'apertura compromettente. Per un lungo periodo le imposte di quella parte di casa rimasero sempre chiuse. Mi sentivo come se fossi guardato, come se fossi in ogni momento nel mirino di una complessa e pressante macchina che puntava costantemente su di me. In qualche modo questa sensazione si aggiunse ad una sorta di mistificazione dell'insediamento, non era un posto che vedevo come una persona in particolare. Era come se fossero le strutture stesse ad essere attive, ad essere vive e reificate, come se fossero dei mostri di pietra monolitici e minacciosi, perfettamente immobili per la maggior parte del giorno, ma capaci di fare dei danni indicibili, capaci di enormi esplosioni di violenza in ogni momento. Guardare agli insediamenti da vicino, sullo schermo di un computer, mi porta a vedere così da vicino l'interno di quella stessa macchina, come mai avevo fatto. Un'esperienza discordante ma illuminante! E questo mi ha colpito in un modo forte, che mi ha profondamente disturbato, una scossa inquietante. Tutta quella violenza, tutto quell'odio e quel dolore per ... per una cosa così banale! Per un'imitazione di non più di un terzo di qualsiasi sobborgo americano... per piccoli negozi di fortuna, per piccoli e miseri prati verdi, per dei blocchi omogenei di case grigie e per il lento e uniforme tempo delle periferie addormentate. Un sobborgo coloniale, in linea con il suo luogo di origine ispiratore, dovrebbe essere privo o dimentico di ogni violenza o conflitto interno. Uno spazio che produce violenza, di cui però non si sa mai nulla. Un idillio suburbano degenerato, ripulito etnicamente, in cui una normalità artificiosa è in qualche modo meccanizzata, come se fosse un'arma. E poi ti rendi conto che lo schierarsi continuo ed ininterrotto in questa guerra invade i più comuni spazi quotidiani del quartiere. Si tratta veramente di una profonda dispersione e di un'assurda realizzazione. Ma poi qualcos'altro mi ha colpito. Da Psagot ho visto la regione fiorente di Ramallah, in espansione, in tutto il suo caotico splendore, in continua costruzione, crescere, espandersi diventare sempre più rumorosa, nonostante tutto. |
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